Fare trade marketing oggi – Il Forum di Largo Consumo

Concentrazioni nella GDO, crescita del discount, crisi dell’ipermercato, presidio del punto di vendita, un uso più produttivo del dato delle carte fedeltà. L’industria fornitrice si interroga sulla trasformazione del retail e adegua il proprio trade marketing.

La distribuzione alimentare sta cambiando, anzi è già cambiata. Nella mappa competitiva si registra l’indebolimento di alcuni operatori a vantaggio di altri, l’ingresso di altri ancora. Rivoluzione digitale anche nel grocery, multicanalità ed evoluzione nel negozio si riflettono nel boom assortimentale. Alle logiche della nuova distribuzione, le organizzazioni del trade marketing e di vendita dell’industria devono rimodellare il proprio approccio ai canali, imparando a relazionarsi con nuovi interlocutori in un contesto di vendita caotico, affollato e talvolta “stressato” da una promozionalità quasi ossessiva. La battaglia si gioca ancora sullo scaffale, ma il suo esito dipende da una strategia che inizia dalla negoziazione commerciale e spesso si costruisce anche sull’analisi dei dati raccolti in campo. Questi i temi della tavola rotonda “Trade Mktg & Sales Circle”, organizzata lo scorso 14 giugno a Milano, da Largo Consumo e moderata dal giornalista Armando Garosci, cui hanno partecipato direttori vendite e responsabili trade marketing di alcune delle principali marche grocery.

I temi oggetto di discussione

  • Crisi dell’ipermercato, ascesa del discount, ibridazione dei format: un processo di trasformazione che impatta sulla gestione delle categorie? In che modo?
  • Qual è lo stato di fatto del dialogo industria-retail di fronte ai progetti di trade marketing?
  • Comunicazione out of store: nella scelta di acquisto che ruolo ha in negozio?
  • Esistono forme di promozione che non comportino la distruzione di valore?
  • È vero che la proliferazione dei codici Ean sta rendendo più complessa la leggibilità dello scaffale?
  • Manutenzione dello scaffale: quali soluzioni per contrastare le rotture di stock?
  • Come valorizzare il field marketing e quale modello organizzativo dare alla forza vendita?
  • Data driven marketing e dati di loyalty aiutano davvero i clienti a scegliere meglio? E fino a che punto le informazioni vengono condivise tra retail e industria?
  • Come impatta nell’organizzazione degli acquisti la trasformazione omnicanale del retail e l’avvento dei servizi di e-commerce e di delivery?

Università di Parma: tra spesa “distratta” e ibridazione dei format

«Negli ultimi 20 anni, lo scenario economico è cambiato in modo importante e questo ha contribuito a cambiare i paradigmi che guidano le strategie delle imprese», ha dichiarato in apertura Silvia Bellini, docente di channel management presso l’Università di Parma. La tecnologia ha modificato i comportamenti di consumo e di acquisto anche nel largo consumo, alternando gli equilibri delle relazioni di canale.  «Alcuni studi che abbiamo condotto sul customer journey confermano che il consumatore oggi entra nel punto di vendita con le idee più chiare rispetto a ciò che deve acquistare. La diffusa connettività e la tendenza a impiegare i device mobili come strumenti di pianificazione della spesa riducono l’attenzione del consumatore nei confronti delle attività di marketing in-store e la sua propensione a effettuare acquisti di impulso. L’uso del mobile durante il processo di acquisto, anche per scopi personali che esulano quindi dalla spesa, causa distrazione e compromette l’efficacia delle attività in-store». La distrazione porta confusione quindi a una pratica di spesa che genera frustrazione. E l’”eccesso assortimentale” certo non aiuta. «Disorientato e confuso di fronte allo scaffale, il consumatore arriva anche a rinunciare all’acquisto al fine di evitare il senso di rammarico quale conseguenza di una scelta sbagliata». La semplificazione del processo di scelta è quindi un tema chiave: «il cliente oggi ha una doppia anima: convenience ma con un fabbisogno informativo crescente. La tecnologia può essere d’aiuto nel soddisfare questi bisogni apparentemente contrastanti, poiché consente di erogare informazioni in maniera rapida e facilmente fruibile. Ma da sola non basta. Per conquistare un cliente poliedrico e sempre più distratto, si rende necessario puntare al coinvolgimento emotivo investendo congiuntamente sulla shopping experience, compito che spetta al retailer, e sul valore del brand, compito in capo all’industria». Altra interessante evoluzione che ha interessato il largo consumo negli ultimi anni riguarda la convergenza dei format: «i formati distributivi non hanno più chiari connotativi distintivi. L’ipermercato sviluppa strategie di trading down per competere con il discount. Viceversa, quest’ultimo applica logiche di trading up per sostenere il confronto con il supermercato. A ciò si aggiunge la riscoperta del punto di vendita di prossimità». I contorni della propria identità distintiva, altri invece affermandosi con contenuti di prodotto e servizio realmente interessati per il proprio bacino di consumatori. Nel frattempo, sono entrati in partita format specialisti, come le insegne del biologico, e sono arrivati anche nel grocery. E sono sempre più numerosi i casi di ibridazione con la ristorazione. «Il mutato scenario distributivo impatta sulle strategie di go-to-market dell’impresa industriale – ha concluso Bellini -. Il processo di innovazione di format intrapreso dalle imprese commerciali interessa anche l’industria per l’impatto che la differenziazione commerciale produce sul posizionamento competitivo dei prodotti. La presenza di formati distributivi simili e facilmente sostituibili, con offerte omologate, politiche di promozioni trasversali, consumatori infedeli e mobili, non è certo di interesse né per la distribuzione né per l’industria. Sarà quindi interessante vedere su quale terreno gli attori della filiera del largo consumo si muoveranno per sostenere ciascuno la propria distintività agli occhi del consumatore finale».

 

 

 

 

 

 

Mutti: valore nella qualità percepita

«La trasformazione dei formati è un fenomeno figlio della crisi del sistema Paese, più che di una precisa volontà di innovazione o esigenze interne», ha affermato Marco Bettone, direttore vendite South Europe di Mutti. Azienda familiare con oltre 120 anni di storia, specializzata nella lavorazione e produzione di derivati del pomodoro, Mutti fattura circa 300 milioni di euro all’anno, di cui 190 in Italia. Di questo mercato, in cui registra una quota del 30%, è dunque un partecipe osservatore: «molte insegne stanno percorrendo la strada del cambiamento per adattarsi alle nuove esigenze del mercato. Non tutte hanno completato il progetto e poche lo hanno fatto in maniera corretta, cioè mettendo al centro il consumatore e cercando di comprendere le peculiarità da valorizzare nella propria offerta distributiva». Ad avere successo sono invece quelle insegne che presidiano il punto di vendita. Tra queste ci sono sicuramente anche alcune catene discount: «riescono a dare una promessa continuativa di convenienza e qualità pur con un’offerta commerciale ridotta». Il rapporto con la GDO è caratterizzato anche da una pressione promozionale elevatissima e continua: «quando si parla di passata di pomodoro, arriva al 70%! D’altro canto, la leva promozionale è un richiamo». Il rischio però è distruggere il valore, ma meno che… «Abbiamo fatto quadrato intorno alla qualità del prodotto. È una qualità distintiva per il consumatore, solo se percepita come tale. In questo modo, però, riusciamo a sfruttare le promo anche in termini di engagement».

Pastificio Garofalo: dal web una lezione alla GDO

A dispetto di una storia lunga più di 300 anni, Garofalo è un brand “giovane” per i consumatori italiani: il marchio è stato lanciato in Italia nel 2002. Dei circa 165 milioni di fatturato annuo, l’azienda (che dal 2014 fa parte del gruppo EbroFoods) ne realizza oggi in Itlaia circa il 40% a valore e il 50 % a volume. « La vera crisi nella distribuzione italiana riguarda la mancanza di identità di alcune insegne della Gdo che, senza una visione di marketing, guardano al concorrente, invece che al consumatore, e si misurano con il discount e l’”everyday low price”, pensando al prezzo»,  ha dichiarato nel suo intervento Emidio Mansi direttore commerciale Italia e Global Marketing Director di Pastificio Lucio Garofalo. La mancanza di “visione”è confermata da un sempre minor ricorso strategico al category management. La crescita non strutturata (o non crescita) di alcuni canali li porta a ricorrere continuamente al volantino. «Nella competizione trasversale, una distribuzione disuniforme non ha altra soluzione per attrarre consumatori». Secondo Mansi, sono poche le strutture con un’idea di crescita chiara, strutturata e vincente. La lezione più amara potrebbe presto arrivare dal commercio digitale che si muove con logiche nuove, riuscendo anche a offrire opportunità interessanti e inaspettate alle aziende.» I nostri prodotti sono venduti da Ocado, uno dei principali supermercati on line di Gran Bretagna, – ha citato a esempio Mansi -. È interessante notare che, mentre nei tradizionali canali distributivi inglesi il 70-80% delle vendite è fatto dalle private lable, all’interno di questa, la quota del segmento top è minimo, su Ocado Garofalo è in assoluto il primo marchio di pasta. Un canale che segue logiche diverse ci sta, dunque, offrendo delle risposte diverse. Lavorando nel modo giusto con questo canale, si può quindi “sparigliare”. Il mondo web evoluto farà la terza rivoluzione, perché entrerà con le sue dinamiche e finirà per distruggere la GD grazie alla GD, perché quest’ultima concede al web marketplace i suoi migliori prodotti scontati».

 

Parmareggio: parlare di marca nella categoria parmigiano

«Stiamo assistendo a cambiamenti che fino qualche anno fa non potevamo neppure immaginare», ha detto Marco Tanzi, direttore vendite di Parmareggio (da gennaio gruppo Bonterre con Grandi Salumifici Italiani) con un fatturato annuo di circa 380 milioni di cui 200 realizzati con il marchio Parmareggio. L’attività dell’azienda fondata all’inizio degli anni Ottanta si divide tra produzione a proprio marchio e per private lable, più una piccola parte di forme intere. Nella “turbolenza”, la complessità di gestire la complessità di gestire la categoria e salvaguardare il valore del prodotto non è poca. «L’industria di marca rischia di soffrire, schiacciata tra le private lable e il discount.» Tuttavia, entrambi rappresentano anche un’opportunità: «abbiamo investito nelle PI e siamo cresciuti innovando il prodotto». E per quanto riguarda il discount: «abbiamo cercato di restarne fuori. Pio abbiamo intravisto un’opportunità. Ora stiamo pian piano cercando di sviluppare gamma “ad hoc”». La strategia Parmareggio si è concentrata inoltre sul rafforzamento del posizionamento nel punto di vendita e nell’immaginario del consumatore. «Una dozzina di anni fa abbiamo iniziato a parlare di marca nella categoria del parmigiano – cosa del tutto inedita – con un forte investimento pubblicitario». Fare un discorso di brand e posizionamento non è semplice laddove, come accade oggi nella GDO, la leva promozionale alla vendita è molto forte. «Negli ultimi tempi, la spinta si era ridotta e il posizionamento sembrava essere più importante del prezzo. Ora quest’ultimo sta tornando in testa ai pensieri». Salvaguardare un valore duramente conquistato non è semplice, ma neppure impossibile. «Insieme a un’importante insegna, abbiamo sviluppato un’interessante iniziativa promozionale che non solo non ha disintegrato il valore, ma ha contribuito a far comprendere meglio il posizionamento del prodotto. Abbiamo proposto un acquisto combinato del nostro parmigiano grattugiato e degli spinaci a marchio del distributore: un modo per declinare l’offerta in maniera innovativa».

Essity: proposta per uno scaffale vantaggioso per il retailer

«Il peso dell’industria nel suo rapporto con il trade è molto cambiato. La marca e il prodotto non sono più sufficientemente forti. Inoltre, nell’equazione sono entrati nuovi soggetti, come il discount. A seconda del mercato e della categoria, può transitare per questo canale fino a un terzo della merce e di questa solo il 25% può essere attribuita a un marchio noto. C’è poi digitale di cui, secondo me, stiamo vedendo ancora solo la punta dell’iceberg»: questa la visione d’insieme proposta da Aldo Chiaraluce, direttore vendite brand consumer goods presso Essity, multinazionale svedese specializzata nei prodotti in cellulosa. «In generale, il discount ha confuso il consumatore in senso buono, annullando le differenze di canale». Essity fattura in Italia 500 milioni di euro, realizzati attraverso i prodotti a marchio Tempo, Tena, Nuvenia, Demakup. E in carta per conto di private lable. «Da circa 20 anni, il mercato dell’incontinenza cresce del 5% ogni anno. Lo scaffale è diventato più affollato di un contesto in cui le reali innovazioni faticano a trovare il proprio spazio lineare. Più che puntare sugli accordi di esposizione e posizionamento, puntiamo sui progetti di categoria, offrendo al retailer una proposta di scaffale che possa favorire il suo giro d’affari. Inoltre lavoriamo sui dati dei consumatori per conoscere meglio il cliente». E il volantino promozionale? «È uno strumento di cui si è abusato. Oltretutto, nella nostra categoria, l’aumento delle vendite è solo apparente, in quanto si tratta in larga parte di acquisiti anticipati». In questo scenario le organizzazioni devono quindi essere più snelle anche nella gestione del punto di vendita. «C’è stato un forte ridimensionamento delle reti di vendita. La nostra mossa vincente è stata la creazione di una struttura di sell-out proprietaria con risorse dirette a tempo indeterminato, che si prende cura di oltre 1.500 iper e supermercati che vengono visitati e “manutenuti con progetti category, eventi, eccetera».

Risorsa: utilizzare il trade per fare storytelling

Il mercato è talmente cambiato e costantemente in cambiamento che, visto in chiave ciclica, non cambia affatto: questa la provocazione lanciata da Domenico Ciasca, responsabile area consulenza di Risorsa, società di consulenza e software vendor, specializzata nel migliorare la redditività dei processi commerciali. L’evidenza è un mercato che non cresce e in cui i listini sono sempre più tirati. «La complessità nella distribuzione italiana è costante. Il punto chiave è gestire questa complessità per trarne un vantaggio». Ciasca indica la necessità di utilizzare il trade per fare storytelling. «In Italia, sono poche le realtà industriali che riescono a gestire il punto di vendita in maniera continuativa ed efficace da questo punto di vista. Al di là dell’approccio commerciale, il dato può rivelarsi sempre un utile strumento di comprensione del contesto, oltre che di misurazione dei propri risultati nel punto di vendita: «i dati di sell-out sono fondamentali. E’ altrettanto importante, però, lavorare con i dati che permettono di stimare le vendite e anche realizzare promozioni vincenti o programmi di fidelizzazione efficaci e misurare a posteriore il valore delle proprie azioni nel trade. Con numeri giganteschi e dati solitamente non uniformi certamente la complessità gestionale è enorme».

Grandi salumifici italiani: il filo rosso del trade marketing

La crisi dell’ipermercato può diventare un’opportunità per chi ha bisogno di spazio per “comunicare” con il consumatore. «Per affermare il marchio all’interno del punto di vendita bisogna argomentare la propria proposta in maniera distintiva» ha indicato Costantino Petroccia, direttore trade marketing e sell-out di Grandi Salumifici Italiani (GSI). L’azienda, che dallo scorso gennaio si è fusa con Parmareggio in Bonterre, fattura 650 milioni all’anno con i marchi Casa Modena e Senfter, sub brand come Teneroni, Teneroni la Merenda, Liberamente, Giravolte presenti nella Gdo, nonché marchi specializzati quali Alcisa e Cavazzutti distribuiti nel normal trade. «Differenziamo la shopping experience per dare al consumatore stimoli diversi a seconda del canale e indirizzando in tal senso gli investimenti di trade marketing. Per arrivare a parlare con il singolo shopper, il punto vendita non è marginale.» Collaborare efficacemente con il trade è infine possibile: «alla fine del 2017, stavamo per lanciare una linea di secondi piatti pronti, ma non sapevamo se proporla nel banco frigo e in macelleria. In collaborazione con un’insegna nel Nord Est Italia, abbiamo testato entrambe le opzioni in un certo numero di punti vendita. Questa operazione è stata determinante per tastare meglio la nostra strategia». Determinante però è che nelle aziende ci sia “cultura di trade marketing”. «Senza rischiamo di perderci. In passato il trade marketing era una funzione “a chiamata”, soggetta alla vendita, subita dal mercato. Oggi invece il modello è triangolare, consumatore, venditore e trade, e il sell-out è il filo rosso che li collega. Noi oggi siamo meno persone di qualche anno f, ma più coinvolti nelle decisioni. Come team di sell-out per esempio, da rilevatori delle attività sul punto vendita, siamo diventati attivatori sullo scaffale».

Consorzio Casalasco del pomodoro

La “discountizzazione” del mercato è un elemento disrupitive del settore: non solo perché quasi il 20% del grocery passa ormai per questo canale, ma perché questa evoluzione ha condizionato le logiche della distribuzione. «Alcuni hanno reagito efficacemente. Altri meno e infatti assistiamo a concentrazioni» ha dichiarato Roberto Morelli, direttore vendite Pomì e De Rica Italia (Consorzio Casalasco del Pomodoro). Ovviamente tutto ciò ha cambiato le regole del gioco anche a monte. «Qualche anno fa c’era chi sceglieva di non lavorare con i discount o per le private lable. Oggi, l’industria deve essere “laica” o rischia di perdere il mercato e soprattutto il contatto con i consumatori». È la scelta fatta da Consorzio Casalasco, la cui produzione per il 60% è realizzata in copacking e conto terzi. «Per gestire canali diversi, bisogna essere strutturati e dialogare con attori diversi». Il trade marketing assume quindi una nuova centralità. «Ha il ruolo strategico per mantenere o aumentare il valore espositivo, evitare le rotture di stock definire e valutare promozioni vincenti, eccetera». Bisogna quindi dare al consumatore più valore: «abbiamo sviluppato un progetto basato sul modello della blockchain, in grado di garantire la tracciabilità di ogni Pomì dal campo allo scaffale».

Bonduelle: investimenti nell’analisi del consumatore

Nella IV gamma il tema chiave non è la promozionalità (qui al 22% circa) ma, piuttosto la ”confusione” del consumatore di fronte allo scaffale: «La categoria è avvantaggiata, in termini di posizionamento del prodotto, dal fatto di trovarsi in un’area pedonabile ad altissima frequenza rispetto al percorso di visita. A dispetto di questo, c’è una bassa conversione di visite in acquisti. Numeri alla mano, vediamo che il consumatore ha le idee poco chiare, anche se la marca vale sempre di più», ha raccontato Andrea Montagna, amministratore delegato di Bonduelle. L’azienda francese a conduzione familiare, specializzata in prodotti “long life”/ambient, frozen, fresco e IV gamma, fattura in Italia circa 200 milioni l’anno. «La particolarità di questo settore è che a differenza dello scatolame, l’ortofrutta ruota sullo scaffale più volte al giorno. Non solo. Rispetto al confezionato classico, il fresco gode talvolta di forte discrezionalità. È un discorso che vale soprattutto per la DO, dove il riassortimento può essere deciso dal capo reparto, ma poi le cose sono diverse da un’insegna all’altra». Una soluzione? «Investiamo molto sul field anche al fine di education sul punto di vendita. In questo senso, incontriamo più disponibilità nella superficie media, meno in alcune grandi». L’obiettivo è andare oltre il prodotto e il suo prezzo per parlare con il trade di categoria. «Quest’ultima è spesso “banalizzata” dal buyer che è maggiormente abituato trattare la materia prima -ha affermato Montagna- . Tuttavia, dal punto di vista del consumatore, per logica di consumo, si avvicina al prodotto di largo consumo. Negli incontri top-down con la Gdo, stiamo dunque portando avanti progetti di condivisioni di dati e category vision (che per la IV e la V gamma sono qualcosa di abbastanza nuovo) con l’idea di capire come dev’essere trattata la categoria, partendo dai bisogni di consumatori. Stiamo investendo molte energie nell’analisi dello shopper per portare valore aggiunto al mercato, compreso il trade».

Zerbinati: dal cliente unico alla multicanalità

Per Zerbinati, fino a qualche tempo fa la gestione dei diversi canali e insegne non sarebbe stata una priorità. Per oltre 30 anni l’azienda familiare, fondata da Ferdinando Zerbinati, ha infatti rifornito con i suoi prodotti di IV e V gamma poco più di un cliente. «È stata la fortuna dell’azienda. Ma anche il suo limite», ha spiegato Massimo Bragotto, che dal 2015 segue il progetto Zerbinati con un suo focus particolare nella direzione commerciale e sviluppo strategico. L’azienda si era specializzata infatti nel gestire solo un grande cliente, allontanandosi da altri grandi contesti fintanto che Simone Zerbinati, terza generazione e oggi direttore generale, ha deciso di di puntare su contenuti nuovi (bio-vegan, prodotti freschi, monodose, nove ricette e nuovi mercati), proponendosi anche ad altre Gdo e arrivando ai discount. «Le relazioni di fornitura con i discount e catene tradizionali rappresentano uno dei temi più delicati. Gestiamo questa situazione con una politica commerciale condivisa e trasparente, ragionando su formati, ricettazioni e così via che tengano conto del suo valore, ma anche degli accordi che abbiamo con i diversi canali. Occorre differenziare l’offerta in termini di contenuti e prezzo, magari proponendo un brand di fantasia, come abbiamo fatto con il nostro “Oggi dall’Orto”». Lavorare con il discount non è dunque complicato, se si conoscono e comprendono le logiche del canale. Oggi probabilmente lo è di più gestire la medio-piccola Do, soprattutto per questioni logistiche. «Se decidi di servire questo canale devi essere pronto and andare fino a Matera e oltre. Può quindi essere più complesso e costoso lavorare così con la Do, piuttosto che con un’insegna discount con talvolta un prezzo di cessione lievemente minore, che però è compensato da altre economie di scala finora non considerate con la giusta importanza (per esempio logistica, costo del personale dedicato all’insegna, complessità della gestione sconti/contratti, eccetera).» E c’è anche l’opportunità rappresentata dal commercio digitale. «Tante insegne stanno esplorando questo canale, alcuni con risultati davvero molto incoraggianti. Poi c’è il commercio digitale “puro” – ha concluso Bragotto -. Non pensavo si potesse vendere on line una busta d’insalata con consegna entro un’ora in una città grande come Milano. Eppure accade! I volumi non sono mostruosi, ma cresceranno. Giustamente oggi la Gdo si preoccupa più del discount. Tuttavia, questo fenomeno va osservato.»

 

Italsilva: gestire le differenze interne ai canali

Tra le tante opzioni oggi sul piatto, quella dei drugstore è una delle più interessanti per Italsilva (Gruppo DESA), azienda mass market, italiana al 100%, presente in Italia con i marchi Spuma di Sciampagna e Suber. «Essere competitivi nel canale specializzato non è facile, ma stiamo ottenendo buoni risultati – ha confermato Gianni Mussatti, direttore vendite di Italsilva -. Molte insegne hanno una grande cultura del prodotto e dello scaffale. Il risultato è che la lettura dell’esposizione per il consumatore è più semplice e con spazi omogenei per tutti i brand di quanto non avvenga invece nella Gdo». Canali diversi, diversi approcci e un unico obiettivo sempre più complesso: presidiare lo scaffale. «Nell’attuale contesto distributivo nazionale, la vera difficoltà non è tanto lavorare con canali diversi, ma gestire le differenze che esistono all’interno di ciascuno di essi. Questo anche perché noi vogliamo e dobbiamo essere presenti ovunque (Gd, Do, drugstore, eccetera) e, secondo noi, non è facile e neppure vincente farlo attuando un’estrema personalizzazione del prodotto». Lo scaffale è dunque il vero “terreno di battaglia”, non solo il volantino. «Stiamo cercando di mantenere o guadagnare posizioni in un contesto sempre più affollato e competitivo, puntando a offrire al trade più business con prodotti e marchi che non fanno leva solo sul prezzo, ma sulla qualità complessiva del prodotto (ingredienti, packaging, marketing, eccetera). Da aprile stiamo portando avanti un progetto di rebranding del marchio Spuma di Sciampagna. L’obiettivo è trasmettere un giusto equilibrio tra qualità e prezzo, valorizzando anche la categoria. La bravura come rete di vendita sarà trasferire questo nel punto di vendita. Per ridare valore allo scaffale, laddove non è facile innovare il prodotto, stiamo inoltre rivedendo il formato, proponendo anche le eco ricariche. È un approccio green, che ci permette di differenziarci sullo scaffale. Per il trade è interessante perché permette di offrire una nuova e diversa modalità di acquisto».

Sammontana: una partita che si decide in poche settimane

Nonostante la crescente complessità, il punto di vendita riveste un ruolo fondamentale per Sammontana, azienda specializzata nella produzione di gelati ma, da fine anni Ottanta, presente anche nella pasticceria surgelata, con i marchi Tre Marie e Il Pasticcere. «Nei nuovi layout di vendita c’è sempre maggiore attenzione all’esposizione del freddo. Il canale moderno ti dà infatti crescente importanza a questo reparto per diversi fattori, fra cui la sua funzione di servizio ai clienti», ha confermato Gianluca Valente, direttore vendite Gdo di Sammontana. Le nuove tendenze hanno dato origine anche nel gelato a proposte innovative sia sui contenuti delle ricette, che sugli sviluppi di prodotti rispondenti ai consumi contemporanei. «Il rinnovamento e l’innovazione sono degli importanti pilatri della categoria del gelato, per portare sempre nuovi stimoli e interessi alla stessa. Il gelato è sempre più acquistato in modo programmato, ma gode ancora di una buona spinta dall’acquisto d’impulso. In un mercato del canale moderno, che è maturo da anni, vale circa un miliardo di auro, la nostra sfida è da un lato migliorare l’offerta “consolidata” per soddisfare e fidelizzare maggiormente il nocciolo della domanda, dall’altro proporre contenuti nuovi e interessanti, per intercettare ulteriori consumatori della categoria, anche da categorie adiacenti, con l’obiettivo di sviluppare il mercato in termini sia di volumi, sia di valore. Per questo focalizziamo la nostra offerta sui due principali di “gusto” e di “benessere”». Tutto ciò va poi tradotto con successo in un contesto di vendita, dove la partita annua si gioca in poche settimane: «in 4 mesi si concentra circa il 70% del business e le rotture di stock rischiano di pesare in modo significativo sul conto finale; per limitare il problema, disponiamo una continua e propositiva rete di informazioni fra la squadra di account e i clienti di sede e di punto vendita». Infine le promozioni, circa il 50% delle vendite, rappresentano “croce e delizia” dell’attività di sell-out: «”delizia”, per l’impatto positivo sulle vendite, ingranaggio di nuovi consumatori, ma anche la costruzione di un dialogo incentrato su diversi temi: innovazione, sviluppi “green”, benessere, eccetera; “croce”, legata a temi di sovraffollamento in un periodo concentrato, di dispersione di valore, della complessa gestione dei picchi di vendita dei negozi».

Saclà: un’esperienza più coinvolgente del prodotto

«Lavorando molto con la Gdo, percepiamo bene la crisi dell’ipermercato e di alcuni formati, il ritorno del discount e la crescente rilevanza delle private lable», ha spiegato Stefano Gatti, direttore marketing e commerciale di Saclà. L’azienda fattura complessivamente 140 milioni di euro, poco meno della metà nel mercato italiano, dove il business (conserve sottolio e sotto-aceto) è canalizzato nella Gdo. «Avendo questa canalizzazione delle vendite in Italia, registriamo un approccio molto più “aggressivo” dal nostro mercato di riferimento, al quale stiamo rispondendo rivedendo i nostri modelli produttivi, aumentando notevolmente la flessibilità e riducendo i tempi di risposta alle richieste. Il nostro credo resta comunque “essere marca” e presidiare tutti i canali: vogliamo e dobbiamo essere attori significativi anche nel discount. Stiamo inoltre sviluppando un approccio sistematico all’on-line dove, per prodotti “ambient” come i nostri, potrebbe esserci un lento ma crescente sviluppo delle vendite». Il perno della strategia commerciale Saclà è dare rilevanza alla marca, «il che è complesso per prodotti che restano “commodity” – ha precisato Gatti –. Più i prodotti sono facilmente sostituibili, maggiore è il rischio di un utilizzo “strumentale” del posizionamento a scaffale». L’offerta crescente delle marche del distributore impatta sulle vendite nella categoria. «Lo spostamento dei volumi rischia di abbassare “il valore”, senza un aumento dei volumi proporzionale. Per raggiungere un sempre maggior numero di consumatori, abbiamo quindi allargato il focus ad altri canali, come l’horeca, e altri comparti della Gdo, con processi di diversificazione delle linee di prodotto, realizzando operazioni di brand stretching: il consumatore ci riconosce credibili in ogni ambito produttivo del comparto vegetale». L’attività sul punto di vendita può aiutare a sostenere marchio e prodotto, ma le logiche di applicazione vanno rinnovate. «Abbiamo ridotto le attività in-store tradizionali, mentre stiamo cercando di investire in attività sul punto di vendita “più emozionale”. Dobbiamo lavorare per creare una nuova percezione del consumatore rispetto al prodotto e alla categoria e c ostruire un’esperienza nel punto vendita più coinvolgente. Un po’ come abbiamo fatto con il tour nazionale “mani in pasta”, portando in decine di ipermercati in Italia uno chef del programma tv “La prova del cuoco” affinché cucinasse con i bambini utilizzando prodotti Saclà. In questa iniziativa Salclà non era soltanto “brand icona”, ma anche materia prima in cucina.»

Cartiere Carrara: il caso del lancio di una nuova referenza

Per chi parte da zero nel posizionare un nuovo marchio a scaffale l’impegno si deve sviluppare su più fronti: dagli investimenti pubblicitari a quelli declinati su più fronti: dagli investimenti pubblicitari a quelli declinati sul punto di vendita nelle sue molteplici forme e identità: Gd, Do, fino agli specializzati. Per Cartiere Carrara, azienda familiare toscana fondata nel 1873 e oggi uno dei più grandi produttori di carta tissue in Italia, questa è un’esperienza recente. «Circa due anni e mezzo fa, l’azienda ha deciso di diversificare il business, affiancando alla produzione di marchio privato, che fino allora aveva rappresentato la quasi totalità del business della divisione consumer, una produzione commercializzata con marchio proprio», ha raccontato Gianfranco Salvi, responsabile vendite – consumer Division di Cartiere Carrara. “Tuscany”, questo il nome scelto. È una new entry nella categoria. Un prodotto nuovo e soprattutto voluminoso e quindi complesso da stoccare a magazzino, oltre che da posizionare sullo scaffale del punto vendita di una categoria già affollata: il guanto di sfida era lanciato. «Abbiamo anzitutto lavorato sul prodotto, puntando su una qualità allineata al top del mercato, ma caratterizzato da un packaging unico nel suo genere; un packaging fotografico che portasse nelle case degli italiani la bellezza della natura toscana.

Abbiamo cercato poi di rafforzare la fiducia del trade in termini di gestione del prezzo, posizionandoci il 5-10% sotto il leader di categoria a parità di qualità. Abbiamo infine investito molto sul marchio. La nostra forza è stata uno storytelling efficace e un marketing mix assolutamente coerente rispetto al brand e al suo pay-off: “Tuscany, la bellezza della carta”». Scendere in campo è stato infine determinante: «fatta la distribuzione nei principali Ce.Di toscani e del Nord Italia, dopo pochi mesi ci siamo resi conto che il lavoro era fatto al 50%. Era indispensabile dedicare progressivamente risorse finalizzate ad assicurare la presenza della nuova gamma sui punti di vendita e la corretta execution della strategia commerciale».


Articolo apparso sul Largo Consumo che parla del Forum organizzato da Largo Consumo sul Trade Marketing, a cui abbiamo partecipato con consulenti esperti del settore.

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